Lo strano caso degli italiani guariti dal covid all’estero

12.02.2022

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Di questi tempi, specialmente se si opera nel settore travel, orientarsi nella sconfinata giungla delle normative covid italiane e internazionali rappresenta un impegno spesso frustrante, specialmente quando la bussola si rompe e tra articoli, commi e infiniti rimandi ci si ritrova in un vicolo cieco.

E’ questo il caso di alcuni connazionali guariti all’estero che devono tornare in italia e ottenere il green pass rafforzato.



Ottenere il green pass a seguito di guarigione all’estero


Il problema principale nasce dal fatto che contraendo il covid all’estero e guarendo, non si ottiene automaticamente l’EU digital covid certificate (in Italia comunemente detto green pass, un’espressione che l’Accademia della Crusca ha definito “finta…priva di circolazione…fortunata”).

Difatti, come spiegano le faq governative, il green pass può essere ottenuto solo una volta tornati in Italia.

I guariti all’estero devono recarsi fisicamente (alla faccia della digitalizzazione dei processi) presso le ASL di riferimento e presentare una certificazione estera attestante l’avvenuta guarigione, ottenere l'authcode e solo allora potranno scaricare la fondamentale tessera verde.

Ok, solo il piccolo fastidio di andare all’ASL e fare un po’ di coda, direte voi.

Non proprio. Vediamo perché.


Cosa dovrebbe fare il cittadino guarito all’estero una volta tornato in Italia?


Per tornare in Italia da un paese di fascia D (come gli USA o l’Inghilterra, ad esempio) è necessario, oltre al tampone pre-partenza, presentare la certificazione “verde” COVID-19, di completamento del ciclo vaccinale o certificazione equivalente.

Non avendo completato il ciclo vaccinale in quanto sopraggiunta la guarigione, è evidente che il cittadino italiano che ha contratto il virus all'estero, non può possedere nessuno dei due certificati.

Quindi, rimaniamo bloccati in Inghilterra? No, il Ministero della Salute ci viene incontro e ci consente comunque di entrare in Italia, ma con obbligo di sottoporsi a isolamento fiduciario per 5 giorni e ottenere un test molecolare o antigenico negativo al termine di questo periodo.

Applicando alla lettera la norma, il cittadino italiano guarito all’estero una volta sbarcato all'aeroporto deve correre a casa con mezzo privato (fermo restando che gli sarebbero comunque preclusi altri mezzi di trasporto, in quanto sprovvisto di certificazione verde) e autoisolarsi per 5 giorni.

Ciò evidentemente gli impedisce di recarsi fisicamente all’ASL e presentare il proprio certificato di guarigione, a meno che non possa delegare un amico o familiare a farlo, magari lanciandogli il documento dalla finestra, cosa comunque non prevista dalla normativa.

Ricapitolando, deve aspettare 5 giorni in isolamento e, poi, andare alla ASL a presentare la certificazione di guarigione estera. Deve comunque sottoporsi a tampone? E chi lo sa…



Conclusione


Stimolato dalla deriva paradossale della situazione, non ho preso in considerazione un fattore fondamentale che dovrebbe guidare l’interpretazione e l'applicazione di ciascuna disposizione, al fine di evitare situazioni farsesche come questa: il buon senso.

Sono sicuro che il buon senso possa essere facilmente utilizzato dalle autorità di riferimento, evitando al cittadino delle conseguenze inique, ma, soprattutto, prive di alcun senso logico.

Per dovere di cronaca, devo comunque riportare che al termine di una lunga conversazione con una callcenterista della Farnesina, dopo aver sviscerato insieme le varie normative sul punto, la solerte ma poco flessibile operatrice non ha potuto far altro che dirmi: - Eh, sì. Dovrebbe fare la quarantena.